Il geologo naturalista ginevrino Horace-Benedict de Saussure, per capirci il primo viaggiatore moderno alpino che, nella seconda metà del XVIII secolo, contribuì in maniera decisiva a diffondere una nuova percezione delle Alpi, associava la conoscenza all’esperienza sul campo: camminare in montagna, per lui, era prima di tutto un metodo di comprendere, in prima persona, il panorama delle altezze... E quindi, mi chiedo, come recita un vecchio adagio, sarà vero che in Valle d’Aosta, cioè in montagna, cioè in altitudine, il vino è più buono?
Beh, sicuramente il fascino della roccia che qui circonda tale nettare è disarmante; lo è tanto e, per me, pure incline alla meditazione più di tanti altri territori. Benvenuti allora in Valle d’Aosta, la più piccola regione d’Italia per superficie e popolazione, la terra del «rouge et noir», colori della bandiera nazionale e della fortuna. Forse sì, in passato, quella del gioco, o meglio della roulette, quando il celeberrimo casinò di Saint-Vincent, tra i primi d’Europa negli anni 90, poteva annoverare tra i suoi assidui frequentatori teste coronate, attori hollywoodiani e grandi industriali del boom economico. Ora solo, invece e aggiungo per fortuna (perdonate il gioco di parole), regione baciata dallo stesso fato, per quelle spontanee bellezze naturali che ogni vallata, nessuna anonima nella sua completezza, riserva al pubblico. Un luogo quindi costellato da record, al tempo stesso positivi e negativi, ma che, come per magia, può fornire l’imperdibile occasione in una sola notte di assistere, da spettatore privilegiato, alla trasformazione delle distese di verde del tramonto in ammalianti aiuole alle prime luci dell’alba.
Dove? La scelta è imbarazzante, per esempio in quel di Sant’Orso a Cogne, nel comune di Emarèse e nella valle di Champorcher; oppure ancora a Barmasc, a Chamois e nella Conca di By. Tuttavia tutte rispecchiano circostanze spettacolari, indifferentemente, le une dall’altre. Una comunità alpina in piena armonia con la natura: case rurali, chiesette, sistemazioni a terrazze in pietra di origine medievale e innumerevoli canali d’irrigazione (vista la scarsità di piogge annuali), denominati ru nel patois valdostano, per convogliare l’acqua dei torrenti nelle zone coltivate. Un’acqua che tra le altre cose supera, in suoi numerosi elementi, quella di Vichy e di Sangemini e che costituisce un patrimonio idrogeologico cospicuo, di cui fa parte anche quella delle sue rinomate stazioni termali. In Valle o in Vallée, la viticoltura ha inizio grazie a una preistorica tribù di origine ligure-gallica che va sotto il nome di Salassi.
Dal II secolo a.C., con i Romani, la vite conquista un posto di primaria importanza per poi riprendersi con il vescovo di Ivrea, Federico Front, che in un decreto del 1272, traccia le zone più vocate e obbliga persino ad avere la massima cura dei vigneti esistenti. La degna consacrazione per la qualità del vino si avrà, però, solo negli anni 60 del secolo scorso, per merito del grande impegno economico profuso dalla Regione autonoma valdostana e per volontà del Canonico J. Vaudan, che, a scopo didattico, formativo e di orientamento vitivinicolo, crea la prima «Cave experimentale» all’interno dell’Institut Agricole Régional.
Nei filari letteralmente strappati dalle rocce metamorfiche, friabili, talvolta anche porose, le radici delle piante, dopo aver esplorato i suoli a disposizione (il cui substrato è morenico-sabbioso acido, con percentuali importanti di limo e bassissime invece di argilla per il ritiro dei ghiacciai), riescono a insinuarsi per approfittare dell’abbondanza di umidità e dei tanti sali minerali, come a suggerire un miracolo d’acqua e poi, anche di-vino. I materiali utilizzati sono un giusto e autentico esempio di km zero: la pietra come elemento costituente fondamentale e il legno, castagno e salice su tutti, per legare le viti. Affermare che il paesaggio vitivinicolo valdostano, sdraiato sulle pendici delle Alpi Graie, rappresenta la cartina di tornasole di come l’uomo interagisce con il proprio territorio è molto vero.
Non stiamo disquisendo se nella viticoltura di montagna sia esagerato definirla estrema o eroica: le insidie e le asperità che attendono i vigneron sono oggettivamente più forti che da altre parti. L’imposizione di una necessaria e delicata manualità di lavoro non basta, perché la caparbietà e la sapienza nel saper controllare le erosioni nei versanti con pendenze ben al di sopra del 30%, come sottolinea correttamente il Cervim (Centro di ricerca, studi e valorizzazione per la viticoltura di montagna), è quello che qui sorprende. La fillossera poi ha dato il suo non-contributo: ha depredato il vigneto europeo a fine ’800, ma non ha attecchito in quest’area, permettendo, nell’ambito ampelografico, la salvaguardia di varietà autoctone, curate spesso quasi fossero l’orto di casa, davvero invidiabile per le dimensioni di questo fazzoletto di terra (circa 400 ettari vitati in totale).
L’indigeno Prié blanc, l’elvetica Petite Arvine, i transalpini Pinot gris (chiamato volentieri da queste parti anche Malvoisie) e Chardonnay dispensano bianchi ricchi di personalità, freschi, eleganti e succosi. La produzione rossista, eccellente nei suoi autoctoni Fumin e Cornalin in Alta Valle e Nebbiolo (o meglio Picotendr) in quella Bassa, sta recitando un ruolo di primissimo piano, merito di un carattere locale tutto da scoprire, che si allontana dai modelli del rosso carnoso e concentrato per assumere i connotati del vino più sfumato, ma comunque tonico e incisivo, non di rado speziato e altamente rinfrescante.
Eh sì, la ricchezza della proposta valdostana non manca, perché racchiude in sé un incantevole ventaglio di natura, storia e tradizioni, in cui l’arte della conservazione e della stagionatura diventano indispensabili capisaldi. I vini sono «estremamente» buoni e distintivi, e anche se non siamo più inseriti nel grande disegno illuministico ove si trovava de Saussure, personalmente ho ancora parecchia voglia di curiosità e suggestione che solo alzando o abbassando lo sguardo, l’altitudine e la pendenza mi sanno regalare.